La Tuscia ha il volto di un vecchio pescatore, direbbe De André, la pelle callosa e bruciata dal sole, le espressioni scolpite nelle rughe, e la stessa placida pazienza di chi non si aspetta niente di particolare. Lezione che si impara in fretta, quando ci si ritrova perennemente al posto sbagliato nel momento sbagliato, e cioè: troppo vicino a Roma.
Gli aerei che sfilano verso la capitale, nuvole permettendo, fanno giusto in tempo ad accarezzare le colline, i profili allungati dei borghi, i fumi bianchi che si levano dai campi abitati, e infine uno dopo l’altro i laghi racchiusi dall’abbraccio dei vecchi vulcani. Ma una volta a terra, si viene fatalmente risucchiati dal centro del caos che è Roma.
Eppure basterebbero una macchina e cento chilometri di Cassia, che oggi come allora striscia verso nord tra le valli e i paesini, e ad ogni curva offre la possibilità di perdersi in una natura selvaggia, di lasciarsi rubare dai profumi di stagione che superano i finestrini: le castagne, i funghi, la freschezza della neve o la prepotenza della primavera. Si aggiungono i rumori, l’eco di un cinghiale giunge dalla macchia di faggi, la risposta di un picchio, e ora che l’orecchio è attento di versi se ne contano infiniti. Si spegne il motore, e si ascolta.
Viterbo, il cuore della Tuscia.
Poi è sempre la Cassia, l’arteria che scorre lungo tutta la regione, che ci porta fin dentro il vero cuore pulsante della Tuscia: Viterbo. Città etrusca, romana, longobarda, anti-papale e infine papale, nasconde sotto una coltre provinciale, un passato di intrighi e misteri. E’ alla dignità dei suoi abitanti, per esempio, che dobbiamo la nascita del conclave: quando stufi dei banchetti cardinalizi che si protraevano da oltre venti mesi, in attesa di eleggere un nuovo pontefice, decisero di chiuderli a chiave (cum clave, quindi) nel Palazzo dei Papi, cibarli a pane e acqua, e di levare il tetto, lasciandoli alla mercé delle intemperie.
Scacco matto. Gregorio X ne uscì papa, e dopo di lui tutti gli altri, compreso il prossimo venturo. Finito il periodo d’oro, Roma tornò a farla da padrona e Viterbo tornò a farsi gli affari suoi, con un’eredità di bellezza ancora oggi intatta: il Palazzo dei Papi, innanzi tutto, la cinta muraria perfettamente conservata, e il quartiere medievale San Pellegrino dove sembra ancora di sentir parlare una lingua romanza.
Laghi e borghi.
Si stendono come tovaglie blu apparecchiate per turisti olandesi e tedeschi, e tutt’intorno come la merlatura di un castello fanno la guardia fin dal medioevo piccoli presepi in tufo: Bracciano, Caprarola, Trevignano Romano, Montefiascone, Anguillara Sabbazia, Bolsena.
Il paese che muore.
Anche questi paesi appartengono visceralmente alla Tuscia: ne sfruttano i colori e la materia prima, e la modellano in modo armonioso con ciò che li circonda. Non sembra nemmeno esserci lo zampino dell’uomo, tanto appaiono integrati con la natura che li ospita. Così tutt’uno, talvolta, che ne condividono il destino geologico: se siete fortunati, dal cumulo di nebbia che solitamente lo cela, apparirà dal nulla Civita di Bagnoregio, “il paese che muore”. Condannato dalla friabilità del tufo su cui poggia e di cui è fatto, è stato svuotato e sopravvive grazie ad un ponte di cemento armato che lo collega a terra, costruito nel ’65. Oggi è rifugio di 6 abitanti, qualche ristorantino e folle di turisti che dalle sue terrazze possono ammirare la Valle dei Calanchi, altra testimonianza delle cicatrici che l’erosione ha inciso e inciderà sul territorio.
Terme e Necropoli.
Una corpo vivo e morto insieme, la Tuscia. E non solo per ciò che si offre alla vista. Appena sotto la superficie si agita un altro mondo che di tanto in tanto viene a galla, come le acque sulfuree che circondano Viterbo: le più suggestive tra quelle aperte al pubblico sono
le tre vasche naturali della Sorgente del Bullicame, dove da secoli si sguazza a 58 gradi. A girar per boschi, poi, se ne trovano di selvagge e nascoste, dove poter riposare una notte intera sotto le stelle dopo una giornata di viaggio: magari dopo aver fatto tappa alla necropoli etrusca di Tarquinia, Patrimonio dell’Unesco, o aver girovagato per i Giardini di Bomarzo alla ricerca delle stramberie che lo rendono un parco-giochi storico unico al mondo; oppure per rilassarsi mentre si elabora il piano per il giorno successivo: c’è ancora da scoprire la purezza incontaminata dei Monti della Tolfa, coi Sassoni di Furbara a far da “dolomiti laziali”, e per i più curiosi, il Moai di Vitorchiano, 10 metri d’altezza per 30 tonnellate.
Io lo so, ma non ve lo dico.Che ci fa uno di quei misteriosi faccioni in pietra che circondano le coste dell’Isola di Pasqua per le viuzze medievali di Vitorchiano, ad occhio e croce a mezzo equatore di distanza da Rapa Nui?
Per chi vuole scoprirlo, non resta che mettersi in viaggio.
O googlare.